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LE MAPPE DI ILVO DIAMANTI

La geografia degli orientamenti culturali, sociali e politici degli italiani, tracciata dagli articoli di Ilvo Diamanti per La Repubblica.
DECLINO, L'ITALIA HA SEMPRE PIÙ PAURA. CHE FINE HA FATTO IL BELPAESE?
[La Repubblica, 18 dicembre 2007]

ABBIAMO discusso fin troppo di "declino", negli ultimi anni. Per questo, probabilmente, il ritorno prepotente di questa "parola" nel dibattito sul destino dell'Italia ha suscitato qualche reazione stizzita e, in generale, una certa prudenza.
Perché il declino è stato usato in altre, precedenti occasioni come una profezia, perlopiù irrealizzata (per nostra fortuna). Oppure come un argomento polemico, volto a indebolire le leadership di governo. Una discussione tutta "interna" al condominio italiano.
Come quella che, alcuni anni fa, ha coinvolto economisti, analisti, giornalisti, attori politici. Divisi in due fazioni: declinisti e antideclinisti. I primi sostenevano che l'economia del Paese perdeva velocità e competitività rispetto agli altri Paesi. Perché l'impresa era ammalata di nanismo, gli investimenti latitavano, le esportazioni calavano. Gli antideclinisti affermavano il contrario. Che si trattava di un ristagno prodotto da fattori e fatti internazionali. A partire dalla crisi provocata dall'11 settembre.
Poi, la discussione si era sopita. Anche perché, nel 2006, molti indicatori avevano cambiato segno. Si era parlato, allora, di ripresa. Il che, ovviamente, mal si combina con il concetto di "declino". Il quale delinea una parabola che ha avviato - irreversibilmente - la fase discendente. Non ammette "riprese". Al massimo, qualche sussulto.
Le date, peraltro, contribuiscono a chiarire i motivi sottesi ai sospetti suscitati da questo dibattito. Acceso negli anni di Berlusconi, si spegne quando al governo torna il centrosinistra, guidato da Prodi. Il quale non possiede poteri taumaturgici tali da invertire la parabola dello sviluppo. All'improvviso. In coincidenza (immediata) con il ritorno a Palazzo Chigi.
"Declino", per questo, è divenuto un concetto ambiguo. Una parola dal significato dubbio. Da usare con cautela. Un lemma del linguaggio polemico della politica. A cui si ricorre per stigmatizzare un governo "nemico".
Così, durante l'esperienza del governo Prodi, si assiste al "declino del declino". Anche se gli indici economici mostrano un andamento contraddittorio, inferiore alle attese dell'avvio. Per prudenza. Per timore di venire nuovamente smentiti dai fatti. E dagli "spiriti animali" (richiamati dal presidente Napolitano, a New York, qualche giorno fa) che attraversano la società e l'impresa italiana. Capaci, altre volte, di tirarsi fuori dalla palude afferrandosi per i propri capelli. Come il barone di Münchhausen.
Sentir parlare ancora di "declino", in modo brutale, sul New York Times, ha suscitato sconcerto. Ha, inoltre, indispettito e "insospettito" un poco. Visto che raramente il Nyt dedica tanto spazio al nostro piccolo Paese di periferia.
Tuttavia, l'autore, Ian Fisher, non è italiano. Non è frenato dalle nostre reticenze e resistenze "locali". Né ha timori nel riproporre stereotipi e luoghi comuni. Ma, soprattutto, non ha puntato sugli argomenti del passato, più o meno recente. L'andamento claudicante dell'economia c'entra poco nella sua ricostruzione.
Che, invece, ha allineato una sequenza di elementi a noi tutti molto noti. L'invecchiamento della popolazione, il calo demografico, i cervelli costretti a emigrare, il sistema politico bloccato, la fatica di fare riforme, il peso del debito pubblico, il distacco dei cittadini dalla classe politica, simbolizzato da Beppe Grillo.
Un ritratto divenuto, infine, di "senso comune". Documentato, per ultimo, dal "Decimo rapporto sull'atteggiamento degli italiani verso lo Stato", condotto da Demos-laPolis e pubblicato sul Venerdì di Repubblica nei giorni scorsi. Con una differenza significativa. L'uso di quella parola. "Declino". Suona come una condanna senza appello. Perché sancisce un destino. Tuttavia, se ci guardiamo dentro, se interroghiamo i nostri sentimenti e i nostri atteggiamenti, i primi a evocare il "declino", anche senza ammetterlo, senza pronunciarne la parola, siamo proprio noi.
Gli italiani, infatti, immaginano il prossimo futuro in modo pessimista. Sotto il profilo economico nazionale e familiare. Per quel che riguarda sicurezza, ambiente, servizi. Per non parlare della politica e delle istituzioni.
Dal punto di vista delle generazioni, ormai, i giovani sono sempre più rari e periferici, nelle gerarchie sociali e professionali. Ma, soprattutto, non si percepisce come il loro destino possa cambiare.
Circa due italiani su tre sono convinti che i giovani, nel corso della vita, non riusciranno a migliorare la posizione sociale raggiunta dai loro genitori (Demos per la Fondazione UniPolis, ottobre 2007). Ancora: una componente rilevante della popolazione ritiene di essere "scivolata" più in basso, nella stratificazione sociale, negli ultimi anni. Un terzo di coloro che si definiscono "ceto medio" denunciano un peggioramento della propria condizione e posizione. La stessa sindrome da "declino" è avvertita da quasi la metà di quanti si sentono "classe operaia", oppure ceto popolare (nel complesso, ancora la maggioranza: 40% della popolazione).
Non stiamo parlando di "dati di realtà", ma di percezioni, atteggiamenti, sentimenti. Cioè, lo stesso. Perché noi siamo ciò che ci sentiamo. E oggi ci sentiamo insicuri e "sfiduciati". Soprattutto quando alziamo gli occhi e ci guardiamo intorno. Quando osserviamo il sistema politico, le istituzioni. La nave in cui siamo imbarcati, tutti insieme. Gli italiani non riescono più a coglierne la direzione, la rotta, la destinazione. Perché la vedono "ferma".
Sentono i timonieri discutere fra di loro senza accordarsi su un itinerario specifico. Peggio, dopo aver navigato "a vista" per anni, colgono parole già udite. (Ricordate il proporzionale?). Per cui li assale il sospetto che si stia tornando indietro. E, in fondo, ne provano quasi sollievo. Perché rientrare al porto da cui si è partiti tanti anni prima è meglio che zigzagare all'infinito intorno allo stesso punto.
Ecco: se il "declino" indica questa attesa di qualcosa che non arriva perché neppure sappiamo più di che si tratta; ce ne siamo dimenticati. Come i soldati asserragliati nel fortino in mezzo al "deserto dei tartari", raccontato da Dino Buzzati. Con la differenza che, in questo caso, il destino (e il nemico) è senza nome. Se tutto questo è vero, allora la definizione funziona. Siamo in declino. Non riusciamo più a spingere sull'acceleratore. A navigare verso un orizzonte, magari lontano e indefinito. Come ogni orizzonte. Tanto meno riusciamo a stabilire una mèta vicina. Un porto nel quale fermarsi per un po', nell'attesa che la nebbia si sollevi. Per questo, respiriamo sfiducia a pieni polmoni.
Tuttavia, non è vero che siamo "infelici", come afferma il Nyt. Nove italiani su dieci si dicono, al contrario, personalmente "felici" (Osservatorio su Capitale sociale di Demos-coop: aprile 2007). Appunto: "personalmente". Felici "nel loro piccolo". Nel chiuso delle relazioni familiari, della cerchia dei rapporti tra amici. Nelle loro case. E, per questo, un poco claustrofobici.
Gli italiani: sprigionano i loro "animal spirits" soprattutto quando agiscono da soli. Oppure in piccoli gruppi, piccole imprese, piccole lobbies, piccole bande. Capaci di scatenare piccoli conflitti dal grande impatto. Gli italiani. Felici a casa propria, ma intimoriti dagli "altri". Dagli stranieri. Una società sterile che ha paura di farsi "contaminare". E medita di rinchiudersi.
La parola "declino", forse, non è del tutto adatta a raffigurare lo stagno in cui siamo immersi. Da cui stentiamo ad uscire, perché ci manca una mappa, una guida, un navigatore.
Però, se ci irrita, se ci scuote, se fa reagire: allora va benissimo.
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