demos & PI
contatti area riservata
RAPPORTO GLI ITALIANI E LO STATO OSSERVATORIO CAPITALE SOCIALE IL MONDO A NORDEST MONITOR ITALIA LE INDAGINI EUROPEE
Le mappe di Ilvo Diamanti
ULTIME MAPPE
Gli italiani e i migranti “Preoccupano ancora ma non rubano il lavoro”
(18 marzo 2024)
vedi »
Le passioni degli italiani Cresce a sorpresa il tifo per la politica la Chiesa perde quota
(9 marzo 2024)
vedi »
Il “campo larghissimo” piace al centrosinistra ma non convince chi vota il Terzo Polo
(1 marzo 2024)
vedi »
L’autonomia leghista piace sempre meno Soltanto nel Nord Est cresce il consenso
(19 febbraio 2024)
vedi »
LE MAPPE DI ILVO DIAMANTI

La geografia degli orientamenti culturali, sociali e politici degli italiani, tracciata dagli articoli di Ilvo Diamanti per La Repubblica.
NOI, DEPRESSI IMMAGINARI
[La Repubblica, 7 gennaio 2007]

I sondaggi dicono che gli italiani sono "depressi". Magari non tutti. Perché è sbagliato estendere a tutta la popolazione orientamenti che ne caratterizzano una parte, per quanto ampia. Però è difficile, da qualche anno, incontrare persone disposte a dirsi soddisfatte di come vanno le cose e tanto meno "ottimiste" circa il futuro del Paese. Le cifre relative al sentimento generale, a questo proposito, sono esplicite. Un sondaggio condotto da Globe Scan-Eurisko per Bbc-Sole 24 Ore, nel 2005, rivelava che gli italiani esprimono il più basso grado di fiducia nell'avvenire dell'economia, fra i 22 paesi considerati. Insieme alla Corea del Sud (comunque avanti a noi, anche se di poco). Dietro a Indonesia, Argentina, Polonia e Filippine. Eravamo nell'era di Berlusconi. L'età del declino, secondo uno slogan allora in voga. Ma oggi, due anni dopo, nell'era Prodi, il sentimento non è cambiato. Un sondaggio realizzato, nello scorso novembre, dalla Gallup International in 54 Paesi del mondo, per rilevare quanta parte di popolazione ritenga che "il 2007 sarà migliore del 2006". Ne ha tratto una classifica che vede l'Italia primeggiare fra i "Top pessimists", dove, peraltro, è in compagnia di altri Paesi europei, fra i quali la Grecia, il Portogallo e perfino la Germania. Ciò conferma che la depressione è un male diffuso, in Europa. Ma in Italia appare patologico. Rivela una sindrome diffusa, radicata. E un po' schizoide. Basta rileggere il sondaggio Demos-Eurisko pubblicato da Repubblica pochi giorni fa. Da cui gli italiani escono piuttosto "dissociati". Pochi, pochissimi valutano positivamente l'anno passato. Sotto ogni profilo. E altrettanto pochi, tra loro, prevedono, nel prossimo futuro, miglioramenti, dal punto di vista politico. Mentre molti di più pensano che l'economia migliorerà. E, soprattutto, quasi nove italiani su dieci si definiscono, personalmente, "molto" (20%) o "abbastanza" (66%) felici (Demos-Coop per la Repubblica – dicembre 2006). È come se faticassimo, noi italiani, a riconoscere e a proiettare la nostra condizione familiare sul piano sociale. Così, combiniamo felicità personale e infelicità pubblica. Fino a comporre immagini francamente irrealistiche. Come quella veicolata dalla retorica del declino, usata per denunciare i problemi accumulati dalla nostra economia. Sicuramente reali e rilevanti, ma non al punto di vederci arrancare dietro l'Indonesia, le Filippine. E neppure ai sistemi dell'Europa centro-orientale, come la Polonia e la Bulgaria, per quanto dinamici e deregolati. Va detto che la patologia depressiva di cui soffriamo non è cronica. È, altresì, ciclica. Gli italiani non sono sempre stati depressi, negli ultimi vent'anni. Al contrario, hanno attraversato momenti di grande ottimismo e di grande autostima. Come negli anni Ottanta, durante il ciclo craxiano, quando ci siamo scoperti (e autocollocati) come quarta potenza economica mondiale. Allora, si preferiva calcolare il Pil, senza considerare il debito pubblico, che ci avrebbe posizionati ancora più in alto (come oggi, d'altronde). Poi è arrivato il collasso dei primi anni Novanta. E il nostro sentimento è affondato. Sepolto dalle macerie della Prima Repubblica, ma anche dal disastro dei conti pubblici, divenuto evidente, ineludibile e non più sopportabile, per i vincoli imposti dai trattati europei. Ma non ci abbiamo messo molto a risollevarci. Nella seconda metà degli anni Novanta, abbiamo coltivato l'illusione di "normalizzare" il sistema politico, di riformare le istituzioni. E intanto riuscivamo nell'impresa "impossibile" di agganciarci all'Unione Monetaria Europea. Mentre la nostra economia, trainata dalle piccole imprese del Centro-Nordest, riprendeva la crescita, con grande dinamismo. Questo ciclo è sfociato nella vittoria elettorale della Cdl nel 2001. Quando Berlusconi ha intercettato e interpretato la voglia di benessere degli italiani. Stanchi di sacrifici. Di tasse. Insofferenti dell'etica del sacrificio, testimoniata dal volto di Visco. Berlusconi "prometteva" che i sacrifici erano finiti. Superati. Definitivamente. Gli italiani avevano diritto ad essere finalmente felici. Le cose, come sappiamo, sono andate diversamente. L'attentato alle Torri Gemelle dell'11 settembre 2001 ha aperto una fase di incertezza politica ed economica globale. Tuttavia, Berlusconi e Tremonti hanno, a lungo, rifiutato di rivedere le "promesse" fatte in campagna elettorale. Preferendo riproporre, con l'aiuto dei media, l'immagine del Paese felice. Predicare la "Terra promessa". Mentre, ormai, l'insicurezza era penetrata nella società, nell'opinione pubblica. E l'economia stagnava. In Italia più che altrove. Anche per questo, soprattutto per questo, la Cdl ha perso le elezioni. Di pochissimo, ma le ha perse. Perché la "Terra promessa" da Berlusconi si era trasformata in "Terra depressa". E tale rimane anche oggi, dopo sei mesi di governo dell'Unione. Tuttavia, come abbiamo visto, non si tratta di uno stato d'animo permanente, ma intermittente. Gli italiani, negli ultimi vent'anni, hanno attraversato cicli contrastanti. Passando dall'euforia alla depressione, dall'ottimismo alla delusione. Senza mediazioni. Senza mezze misure. Come un pendolo che oscilla rapidamente, da un punto all'altro, senza mai rallentare. Per diverse ragioni. 1. Alcune di ordine sociologico. Abbiamo superato una condizione di arretratezza e povertà in pochi decenni. Tra gli anni Cinquanta e Settanta. Negli anni Ottanta, all'improvviso, abbiamo scoperto la ricchezza e il benessere. E abbiamo cambiato, in fretta, consumi e stili di vita. In modo eccessivo e vistoso, come coloro che hanno bisogno di certificare ed esibire il successo raggiunto. Allo stesso tempo, non abbiamo mai dimenticato la miseria e l'arretratezza. Per cui siamo inquieti. Abbiamo paura di tornare poveri. Perché lo siamo stati. Di scivolare in fondo al treno dello sviluppo. Dove eravamo finita la guerra. Prima della ricostruzione. Per cui è facile cadere in depressione, nell'incertezza. Anche per questo nessun altro Paese in Europa presenta un andamento dei consumi così isterico. Le discese ardite e le risalite. Come il nostro umore. 2. Altre ragioni, alla base dell'instabilità emotiva nazionale, sono di ordine politico e sociopolitico. Alcune di lunga durata. La debolezza delle nostre istituzioni, la pervasività della politica: hanno accompagnato lo sviluppo, senza guidarlo, senza regolarlo. Il peso dello Stato, diventato invadente, oltre che inefficiente. Ha prodotto, continua a produrre, un senso di alterità e distanza. Così la società ha navigato senza ormeggi, senza fari. Alcune ragioni politiche sono, invece, maggiormente legate alla stagione più recente, segnata dal trionfo del marketing e della comunicazione. Finiti i partiti di massa, che cementavano e orientavano la società. Finite le ideologie e insieme ad esse anche i miti del progresso, dello sviluppo. Finita la stessa idea del futuro, scenario su cui proiettare le attese e le speranze dei cittadini. Oggi, da qualche anno, domina il marketing politico. Dominano i sondaggi, la tivù. Il domani pensabile e possibile si ferma, appunto, a domani. Al più, si arriva a qualche mese. La società è diventata "Opinione Pubblica". I cittadini: mercato elettorale. E la principale risorsa spendibile, sul mercato elettorale, non è più il consenso, ma il dissenso; la delusione, invece della fiducia. Per cui, in tempi di instabilità economica e politica – nazionale e internazionale – è divenuto conveniente "monetizzare" l'incertezza. Alimentata, peraltro, da una canea di statistiche e di sondaggi contrastanti. (Ormai anche i numeri sono faziosi). Un sistema partitico fragile, precario, una classe politica dotata di scarso coraggio hanno preferito assecondare e alimentare il malessere. Al prezzo di coltivare una democrazia senza consenso. Manca, oggi, nel discorso politico, il senso del futuro, sopraffatto dalla sintassi minimalista, del giorno per giorno. E ciò enfatizza la tentazione delle persone di rifugiarsi nel loro particolare. Nel loro microcosmo. Così gli italiani si scoprono dissociati. Felici sul piano personale, infelici su quello pubblico e insicuri del futuro. Rannicchiati nel loro piccolo mondo familiare e locale. L'orizzonte racchiuso nel perimetro angusto dell'immediato. In attesa di una nuova sfida, di una nuova minaccia esterna. Che li faccia reagire alla depressione.
home  |  obiettivi  |  organizzazione  |  approfondimenti  |  rete demos & PI  |  partner  |  privacy step srl  ::  p. iva 02340540240