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LE MAPPE DI ILVO DIAMANTI

La geografia degli orientamenti culturali, sociali e politici degli italiani, tracciata dagli articoli di Ilvo Diamanti per La Repubblica.
SE VICENZA FA PAURA A ROMA
[La Repubblica, 19 febbraio 2007]

La manifestazione è passata, affollata e festosa. Tranquilla. Oltre ogni previsione e ogni speranza. Più di uno aveva previsto e qualcuno sperava andasse diversamente. Ed è cominciato il gioco delle etichette. Il tentativo di catalogare la manifestazione e i manifestanti. Spiegando ciò che sono e non sono. Antiamericani, no global, nimby people. Ma anche «romani», come ha suggerito qualche amministratore locale (e qualche politico nazionale), per sottolineare che si trattava di «gente venuta da fuori». Estranea a Vicenza. Il gioco delle etichette, per quanto scontato, non è inutile. Suggerisce la difficoltà di applicare «una» sola etichetta a una manifestazione così ampia, variegata e variopinta. Ma riflette, al tempo stesso, la preoccupazione - trasversale - dei principali attori politici di rivendicarne la paternità. Un segno di disagio politico. Certo: alla manifestazione erano presenti parlamentari e amministratori della Margherita e dei Ds. Ma a titolo personale e locale, in dissenso con il partito nazionale. La partecipazione di altri leader autorevoli sottolineava l'adesione dei partiti della sinistra cosiddetta «radicale»: i Verdi, i Comunisti italiani, Rifondazione comunista (la più visibile e presente, con i suoi militanti e le sue bandiere). Inoltre, era particolarmente estesa la partecipazione della Cgil. Tuttavia, piegare la manifestazione a una lettura politica di parte o di partito sarebbe improprio e riduttivo. Gli slogan più diffusi, tanto per dire, investivano e accomunavano il sindaco e l'amministrazione comunale di Vicenza al governo romano. Prodi, Rutelli e Amato i nomi più gettonati. Berlusconi, per una volta, quasi assente. Sui manifesti e sulle magliette gli slogan alternavano la questione della base e quella politica. I più frequenti: «No Dal Molin» e «Governo luamaro» (l'ha ricordato ieri Fabrizio Ravelli su la Repubblica, precisando, per chi non è veneto o non ha letto Luigi Meneghello, che «non si tratta di un complimento»). La presenza della sinistra radicale aveva un significato «difensivo» e «prudenziale», più che rivendicativo. Utile a «prendere le distanze» dalle scelte di un governo di cui, tuttavia, fa parte. Per non perdere consensi, più che per allargarli. La verità è che quel corteo ha raccolto una molteplicità di domande e di esperienze che, perlopiù, non hanno rappresentanza politica, soprattutto nel centrosinistra. Non solo quelle dei centri sociali e dei gruppi della sinistra antagonista, che costituiscono una componente sociale molto limitata e, per definizione, «fuori» dal sistema della rappresentanza (Rc e gli altri partiti della sinistra ne intercettano solo una frazione). Ci riferiamo, soprattutto, alle domande e alle esperienze che hanno fondamento «locale», come nel caso della nuova base americana a Vicenza. Sabato, alla manifestazione, hanno sfilato, in grande numero, i comitati della Val di Susa contrari alla Tav. Insieme ad altri, che evocano altrettante tensioni territoriali: la Sardegna, la Val Brembana, Scanzano. Numerosi i vessilli con il leone di San Marco, a rammentare l'esistenza e la «resistenza» degli autonomisti della Liga Veneta. Quanto alla presenza locale, i vicentini e i veneti erano molti. Come testimoniavano gli slogan gridati e scritti su cartelli e bandiere. E Vicenza, comunque, c'entra, con il significato e il risultato della manifestazione. Non solo per la specifica rivendicazione, alla base della manifestazione. Che pure ha avuto il suo peso (la nuova base americana costituisce, oggettivamente, un punto di congiunzione fra motivazioni di segno diverso: locali, globali e no global; compreso il sentimento antiamericano, che pare cresciuto, negli ultimi anni). Ma perché Vicenza, da vent'anni, costituisce un laboratorio, dove si sperimenta il distacco fra il territorio e lo Stato. A Vicenza (e a Treviso) ha riscosso i suoi primi successi la Liga, quasi venticinque anni fa. E a Vicenza, sabato, ha sfilato anche il fondatore della Liga, Franco Rocchetta (l'ha rammentato ieri Alberto Statera, su questo giornale). Vicenza, la provincia più industrializzata d'Italia, ha costituito il focolaio della protesta delle piccole imprese contro lo Stato, esplosa nel Nordest durante gli anni Novanta. Gianfranco Fini l'ha proclamata «capitale del malcontento, dell'Italia che produce e si rivolta», sul palco della manifestazione organizzata dal centrodestra contro la finanziaria. In Piazza dei Signori, il salotto di Vicenza. Pochi mesi prima, Berlusconi aveva lanciato l'ultimo assalto contro la sinistra, in campagna elettorale: alla fiera di Vicenza, di fronte agli industriali. La protesta contro la base militare americana può apparire «altra»; quantomeno perché ha maggiore ascolto a sinistra. Tuttavia i comitati e i cittadini che l'hanno promossa e condivisa, più ancora che in passato, si sono trovati ad agire da soli. Contro l'amministrazione comunale, il governo, l'opposizione e gli imprenditori. Senza potersi esprimere, a livello locale. Senza essere ascoltati dal governo. Senza voce. Distanti da Roma (e dal Comune di Vicenza). Per questo motivo la manifestazione di Vicenza è significativa, dal punto di vista politico nazionale. Non tanto perché sottolinea la coabitazione difficile di «due sinistre al governo» (come sostiene Sergio Romano, sul Corriere della Sera). Ma perché raffigura e sanziona la distanza fra la politica e il territorio, fra lo Stato e ampi settori della società. Un problema che investe soprattutto - ma non solo - il centrosinistra. Perché ha radici territoriali profonde; perché i suoi consensi sono alimentati dalla partecipazione, più che dalla comunicazione (e dalla televisione). Soprattutto, ma non solo, nel Nord, invece, il centrosinistra appare «romano» (senza allusione al premier). Incapace di capire e, prima ancora, di ascoltare le ragioni (e magari i torti) dei cittadini. Così, nel Nordest, a Vicenza, il governo romano è percepito lontano e ostile. Un sentimento reciproco, visto che, a Roma, Vicenza e il Nordest appaiono lontani e incomprensibili. Un posto dove la gente protesta sempre, «a prescindere» (per dirla con Totò). Anche se, alla fine, piega la testa e tace. Brontolona e mansueta. Da qualche anno non è più così. Protesta ancora, ma è meno disposta alla rassegnazione. Non solo il «popolo di destra». Tutti. La manifestazione di Vicenza pare, dunque, significativa perché riassume e interpreta una domanda di partecipazione insoddisfatta e inespressa. Una relazione frustrante con la politica e con lo Stato. Parente delle molteplici esperienze (e proteste) locali e localiste. Ma anche della mobilitazione che ha decretato il successo delle primarie. E, infine, della Lega, o meglio: della Liga (a Vicenza, in fondo, siamo tutti un po' leghisti). Non a caso, per definire il senso della manifestazione, alcuni protagonisti hanno parlato di «mobilitazione comunitaria». Lo ha fatto il presidente della Camera, Fausto Bertinotti, intervistato da Gigi Riva sull'Espresso. Gli ha fatto eco l'ex sindaco democristiano di Vicenza (e oggi leader veneto della Margherita) Achille Variati (sul Riformista). Anche così si spiega la «paura» sollevata da Vicenza. L'allarme preventivo e il disagio successivo, intorno alla manifestazione. Vanno oltre i legittimi timori provocati dalla rete terrorista, scoperta a Padova nei giorni precedenti. Non è solo «paura» della violenza. È, anche, un segno della frattura fra Vicenza e Roma. Fra lo Stato centrale e la periferia. Rispecchia la difficoltà della politica (e del centrosinistra) di capire. E di farsi capire. Fino al punto di vedere (e temere) nella mobilitazione di Vicenza una minaccia (come ha rammentato ieri D'Avanzo). Ma quale democrazia stiamo coltivando, se la partecipazione fa paura? E in quale Stato ci siamo ridotti se Roma ha paura di Vicenza?
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