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La Tangentopoli infinita per un italiano su due restiamo il Paese dei corrotti (9 dicembre 2024)
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LE MAPPE DI ILVO DIAMANTI
La geografia degli orientamenti culturali, sociali e politici degli italiani, tracciata dagli articoli di Ilvo Diamanti per La Repubblica. |
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LA PAURA SI BATTE A TAVOLA. COSÉ IL CIBO RESTA UN PIACERE [La Repubblica, 23 ottobre 2008]
Pochi "oggetti" esprimono l'ambivalenza, vorremmo dire l'ambiguità, degli orientamenti sociali quanto il "cibo", in grado di suscitare orientamenti molto diversi: paura e piacere, preoccupazione e impegno, tradizione e sperimentazione. Anche se è vero che questi sentimenti, spesso, coesistono nelle stesse persone; collegati, perfino conseguenti. Visto che la paura può generare piacere, la preoccupazione l'impegno. E le sperimentazioni più riuscite – e sorprendenti –nascono, talora, dalla tradizione. L'Osservatorio curato da Demos-coop e pubblicato oggi sulla Repubblica conferma questa idea. 1. Il cibo, infatti, è in testa alle preoccupazioni quotidiane degli italiani. Anzitutto per ragioni di bilancio familiare. Il 47% degli italiani, infatti, afferma di aver diminuito la spesa per consumi alimentari, il 63% di aver ridotto la frequenza dei pasti fuori casa. Poi, per motivi di "sicurezza". Il 56% delle persone sostiene di essere "molto" preoccupato della sicurezza degli alimenti. Quasi tre volte di più rispetto a due anni fa. La paura e la preoccupazione sono, quindi, cresciute. A causa dell'impatto – reale e psicologico – prodotto dalla crisi finanziaria, da un lato, e dalle degenerazioni "alimentari" importate da aree vicine e lontane. Dalla mucca pazza, all'influenza aviaria fino al latte alla melanina. D'altronde, oggi i mercati non hanno confini. Il mondo non ha confini. E neppure le paure hanno confini. 2. Tuttavia, l'impatto della paura sugli stili alimentari degli italiani non sembra aver compromesso il "piacere del cibo", il quale sembra perfino cresciuto. Come testimonia l'attenzione suscitata dal "Salone internazionale del Gusto", che si apre oggi a Torino. Promosso da Slow Food e Terra Madre, rappresenta bene l'ambiguità (positiva) del cibo. Motivo di "piacere" e, al contempo, di impegno "globale", valorizzando il rapporto diretto con i contadini e gli allevatori delle aree più povere. Nonostante la crisi e la paura, d'altra parte, quasi il 40% degli italiani sostiene di andare a cena – o a pranzo – fuori casa più volte al mese. Una misura analoga rispetto a due anni fa. Mentre è perfino calata (dal 15% all'11%) la quota di coloro che non si muovono mai da casa per mangiare. 3. La tavola è un luogo sociale. Per 9 italiani su 10: "un momento importante per stare insieme, parlare e conoscere gli altri". 4. Il cibo è, quindi, motivo di insicurezza e di rassicurazione. Quand'è consumato in modo slow, ma anche fast. Si pensi all'aperitivo. Un tempo era una "professione" adulta, esercitata al bar o in osteria, dopo il lavoro, prima di rientrare a casa. Oggi, invece, è divenuto un rito giovanile, celebrato nelle piazze e lungo le strade. Vi partecipa almeno una volta alla settimana il 20% degli italiani; ma il 45% fra 18 e 24 anni e quasi il 40% fra 25 e 34 anni. Ha, quindi, cambiato significato e natura. Non è più un'introduzione al pasto. Ma, un sostituto. Un happy hour, durante il quale l'aperitivo è accompagnato da spuntini e snack, tanto abbondanti da ammazzare l'appetito. Un'abitudine diffusa, che si protrae sempre più a lungo. Fino a bucare la sera ed entrare dentro alla notte. 4. La stessa ambiguità, d'altronde, si rileva nelle preferenze degli italiani. I quali, nonostante il trionfo della nouvelle cuisine e delle altre novità (come la cucina "molecolare" del catalano Ferran Adrià, grande cuoco e grande chimico), restano saldamente attaccati ai cibi e alle bevande della tradizione. Gli italiani: a tavola non saprebbero mai – ma proprio mai – rinunciare al pane (19%) e al vino (18%). Ma soprattutto - e anzitutto - alla pasta (43%). Di fronte a cui passa in secondo piano ogni differenza: di età, genere, classe sociale. 5. Dunque, non si mangia per sopravvivere, "perché non se ne può fare a meno". Solo per il 10% i pasti sono tempo perso. Per tutti gli altri è diverso: si mangia per vivere. Perché è uno spazio di vita necessario, ma anche piacevole e socialmente utile. Per comunicare, dialogare, lavorare, confrontarsi, divertirsi. E, insieme, per "impegnarsi". Una quota significativa di persone, infatti, fa attenzione alle etichette degli alimenti (30% circa, secondo l'Osservatorio di Demos-Coop). Ne scruta le provenienze e i produttori. Per motivi di sicurezza, ma anche di solidarietà. Per sostenere le economie e i produttori di aree in via di sviluppo. Oppure per punire aziende e imprese che non rispettano i diritti del consumatore e, prima ancora, dell'ambiente, dei lavoratori e delle popolazioni. 6. Non tutti gli italiani, però, fanno convivere, nel loro atteggiamento e nei loro comportamenti, il piacere e la paura, l'impegno e la preoccupazione. La crisi sta, infatti, producendo un rapido e significativo mutamento nello stile dei consumi, che separa la società in modo molto evidente. Ad esempio, denuncia di avere ridotto i consumi alimentari il 38-40% tra le categorie professionali medio-elevate (dirigenti, tecnici, imprenditori, lavoratori autonomi e liberi professionisti), ma il 50% e oltre fra quelle periferiche (operai, pensionati e disoccupati). Parallelamente, dichiara di aver diminuito la frequenza dei pasti fuori casa il 70% tra le categorie sociali periferiche: dieci punti percentuali in più rispetto a quelle più centrali. 7. La distinzione sociale si allarga ulteriormente se guardiamo alla "qualità" dei consumi. I più poveri, quelli che occupano posizioni sociali e sul mercato del lavoro meno remunerate e meno sicure: vanno a mangiare la pizza, non hanno tempo per gli aperitivi. Anche se sono preoccupati – e molto – dei rischi legati agli alimenti, fanno meno attenzione alle etichette degli alimenti, non hanno confidenza con il biologico e neppure con le botteghe dell'equo e solidale. Non si occupano di consumo critico, etico e responsabile. 8. All'opposto: c'è una "aristocrazia enogastronomica" che non si limita a mangiare spesso fuori casa, ma sceglie i locali consultando le guide specializzate. Non acquista il vino in brik, ma in bottiglia. Facendo attenzione al vitigno, alla zona e all'anno di produzione, alla cantina, al numero di bicchieri assegnato dal Gambero rosso. Mangia bene e, talora, lamenta sazietà. Predica la sobrietà come virtù e come auto-difesa. E' politicamente trasversale e socialmente medio-elevata. 9. Al suo interno si distingue e si distanzia una componente specifica. Che non si "limita" a mangiar bene, in modo sano e competente. Ma usa il cibo come mezzo di espressione, comunicazione e partecipazione. Fa politica quando acquista, consuma e quando mangia. E' composta, principalmente, da persone del ceto medio intellettuale (e da intellettuali tout-court) politicamente orientate a sinistra. Il cibo, per loro, rischia di diventare un rifugio. Dove il piacere compensa non solo la paura, ma anche la frustrazione politica.
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