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LE MAPPE DI ILVO DIAMANTI

La geografia degli orientamenti culturali, sociali e politici degli italiani, tracciata dagli articoli di Ilvo Diamanti per La Repubblica.
SENZA PARTITO NON C'È FESTA
[La Repubblica, 22 agosto 2016]

Non ci sono più i partiti di una volta. E neppure le feste di partito di una volta. Le feste dell'Unità, per esempio. Oggi sollevano interesse solo quando suscitano polemiche. Com'è avvenuto in questi giorni, dopo che l'Anpi ha deciso di non partecipare alle feste dell'Unità, a partire dall'appuntamento di Bologna.

Per una ragione esplicita. L'associazione dei partigiani, infatti, è stata invitata a non promuovere le ragioni del No al referendum costituzionale alle feste. Renzi sta peraltro tentando di ridimensionare le tensioni. Ha infatti proposto al presidente dell'Anpi un confronto sul tema del referendum la settimana prossima a una festa dell'Unità in Emilia-Romagna.

Al di là di valutazioni sul merito, questa polemica fornisce un segno significativo. Dei tempi che cambiano. Perché, come ha osservato, sulla Repubblica, la storica Anna Tonelli: "Le feste hanno sempre costituito un luogo aperto. Anche ai cosiddetti nemici e agli avversari, negli anni degli scontri più duri". Michele Serra lo ha rammentato ieri, senza mezzi termini: "Le feste dell'Unità sono per loro natura e da sempre il luogo classico della discussione a sinistra".

Naturalmente, non bisogna attribuire un significato paradigmatico a un episodio specifico. Ma le feste dell'Unità, forse più di altri aspetti della realtà politica, spiegano bene quanto siano cambiati i "partiti". Ammesso che sia ancora possibile definirli così. Perché i "partiti" di massa sono scomparsi 25 anni fa. Non per caso. Ma perché non avevano più senso. Il "senso", almeno, offerto dalla storia che li aveva generati. Nell'Italia del dopoguerra, la politica era strutturata dalla frattura fra l'anticomunismo, impiantato sul muro di Berlino, e, sul versante opposto, l'anticlericalismo, l'antagonismo verso la Chiesa. D'altra parte, uno slogan in occasione delle elezioni del 1948 recitava: "nel segreto dell'urna, solo Dio ti vede, Stalin no". Mentre un giovane veneto, in un questionario distribuito nei primi anni '50 (anche allora si facevano sondaggi...), accanto al marchio del Pci scriveva: "belve assetate di sangue. Con la falce ci taglieranno la testa e con il martello ci inchioderanno alla croce" (in Allum e Diamanti, '50/'80: vent'anni. Due generazioni di giovani a confronto, pubblicato dalle Edizioni Lavoro nel 1986). Quanto alla Dc, lo stesso giovane ne definiva i dirigenti "ladri". "Lontani dai poveri e da chi lavora". Opinione condivisa da molti altri, nell'inchiesta. Eppure, il loro sostegno andava proprio alla "Democrazia" (implicitamente: Cristiana). Perché i "comunisti" erano servi della Russia. E nemici della Religion.

Cioè, del mondo cattolico. Il sistema di servizi, associazioni, valori che sosteneva la società locale. La Chiesa: il retroterra della Dc. E il Pci, insieme alle associazioni sindacali e della sinistra, offriva un'alternativa. Capace di evocare gli orizzonti di valore e di organizzare la realtà sociale. Di indicare grandi destini, ma anche le routine quotidiane. Per questo le feste dell'Unità sono importanti. Perché danno continuità a quella storia. Quando la politica era inserita nella vita quotidiana. E contava nel momento del voto, nel rapporto con il governo nazionale, ma anche nella socialità e nel tempo libero.

Certo, da allora è cambiato tutto. Più della politica oggi conta l'anti-politica. Eppure anche un tempo l'antipolitica era diffusa. Nei giudizi sui partiti espressi nell'inchiesta condotta negli anni '50, gli insulti si sprecano. I politici pensano tutti ai fatti e agli affari loro. Senza distinzione fra destra e sinistra. Anche perché allora esistevano solo comunisti e democristiani. La questione decisiva era il Con-testo. La condivisione di un linguaggio, di un ambiente. Così eri e ti sentivi comunista oppure democristiano, meglio: anti-comunista, a seconda del luogo dove vivevi. E delle relazioni che intrattenevi.

Si tratta di cose note. A ripeterle si rischia di apparire nostalgici. Anche se la nostalgia è utile, perché spinge a rivisitare il passato in modo selettivo. A isolare gli aspetti più interessanti. Tuttavia, nel caso delle feste dell'Unità mi pare che il problema vada oltre. Perché si tratta di feste popolari ("di popolo") che riproducevano il legame della politica, ma anche dell'anti- politica, con la società.

Ma oggi "quel" legame sembra essersi spezzato. Perché "quei" partiti non ci sono più. Così, la festa dell'Unità è divenuta un'altra cosa. Non ne giudico, ovviamente, la qualità. Per rispetto della sua storia, almeno. Tuttavia, il cambiamento di clima sociale intorno all'unica Festa di partito sopravvissuta, insieme al giornale a cui fa riferimento, permette, più di altri segni, di ragionare sulle difficoltà del "partito" che la ispira. Oggi: il Pd. A differenza del Pci, non è un soggetto "unitario", come suggerisce la testata del suo storico giornale. L'Unità, appunto. Riassume, invece, due "popoli" per molti anni alternativi. Comunisti e anticomunisti. Post- comunisti e post-democristiani. Cioè, post-anticomunisti. Oggi, peraltro, il Pd deve fare i conti con una nuova distinzione. Post-ideologica. Perché al suo interno si è imposto il PdR. Il Partito di Renzi. Un soggetto, in parte, specifico. Distinto. Ma stare insieme a fini strategici è una cosa. Camminare e discutere insieme, perché insieme si sta bene, è un'altra. "Festeggiare", ascoltando pareri diversi su un referendum (fin troppo personalizzato), decisivo per il futuro della leadership e quindi del partito: è un'altra cosa ancora.

Per questo il Pd ha "senso". Futuro. Ma solo se riuscirà a trovare un equilibrio, anche instabile, con il PdR. E, viceversa. Oggi, però, ha poco da festeggiare. Perché l'Unità, più che un giornale, per gli elettori e i militanti del Pd-PdR costituisce un (difficile) obiettivo da conquistare. Con impegno e fatica. Ma anche per passione e "piacere". Perché, altrimenti, restano solo gli interessi. E allora, a far politica: che gusto c'è?

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