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LE MAPPE DI ILVO DIAMANTI

La geografia degli orientamenti culturali, sociali e politici degli italiani, tracciata dagli articoli di Ilvo Diamanti per La Repubblica.
LE FESTE DELL'UNITà AI TEMPI DEL PD
[La Repubblica, 19 agosto 2007]

L'anno scorso, tratteggiando una "mappa" delle feste di partito, nel centrosinistra, emergeva un'assenza significativa. In mezzo a un tripudio di feste dell'Unità, diffuse un po' ovunque, qui e là si celebravano altri riti estivi. Organizzati da Rifondazione (Festa di Liberazione), la Margherita, i Verdi (Festambiente). Perfino dall'Udeur (Festa del Campanile) e dalla Lista Di Pietro. Un Paese in festa. Almeno d'estate. Con una evidente eccezione: il Partito Democratico. Un marchio votato da milioni di elettori (sotto le liste dell'Ulivo). Che non disponeva, però, di una vera occasione di festa. Fino a un anno fa. Quest'estate, invece, nei dintorni di Urbino e Pesaro, zona tradizionalmente "rossa", abbiamo visto manifesti contrassegnati da diverse e curiose combinazioni di sigle e di bandiere. Festa dell'Unità (FdU) e dell'Ulivo; FdU e del PD; FdU e dell'Ulivo per il PD; FdU, dell'Ulivo e del PD. Qui e là, isolata, qualche "festa dell'Ulivo", senza altre denominazioni. (Ma nessuna festa del PD). Mentre resistono, in gran numero, le Feste dell'Unità.
Insomma, una "foresta di simboli" politici. Evoca la fase di passaggio, che stiamo attraversando. Sospesa tra partiti che hanno chiuso con il passato e altri fin troppo nuovi. Al punto che, per ora, hanno solo un futuro (assai prossimo) da coltivare. Eppure, un vocabolario di feste politiche tanto composito suggerisce anche qualche disagio. Ben sottolineato dalla polemica sollevata dalla proposta dal politologo Salvatore Vassallo, sostenitore, fra i più rigorosi, del Partito Democratico. Nel compilare un decalogo per la costruzione del PD, Vassallo, nei giorni scorsi, ha inserito anche un "comandamento" che prevede il superamento delle Feste dell'Unità. Dove molti Democratici potrebbero sentirsi "ospiti graditi, ma non padroni di casa". Suscitando reazioni accese, fra molti dirigenti e militanti diessini. Indisponibili a "cedere" la titolarità, la responsabilità e, magari, il controllo (amministrativo) della "loro" festa. La tentazione di scivolare nell'ironia, per quanto comprensibile, va controllata. Anche se sulle "feste dell'Unità" c'è un'ampia letteratura dall'impronta folk. Tuttavia, a noi la questione pare fin troppo seria. Perché permette di ragionare sulle basi del consenso ai partiti tradizionali, in Italia. E sui problemi conseguenti alla costruzione di un "nuovo" soggetto politico, che si propone di "andare oltre" i modelli del passato. La "festa dell'Unità", infatti, riassume molti degli aspetti che caratterizzavano il "partito di massa", nel corso della prima Repubblica. Il PCI, soprattutto, ma anche la DC hanno costruito e mantenuto il loro consenso attraverso un profondo legame con la società e il territorio. Costituivano dei soggetti di partecipazione, di "educazione", inseriti nella vita quotidiana. Così, in particolare nelle zone rosse dell'Italia centrale, votare a sinistra era il riflesso di un'appartenenza totale. Che si esprimeva in ogni momento e in ogni luogo. Nell'associazionismo economico e sindacale, nel tempo libero, nei consumi. Una vita trascorsa tra case-del-popolo, coop, arci, cgil, cna. E sezioni di partito. Qualcosa di simile avveniva nelle zone bianche: nel Nordest e nelle province periferiche del Nord, dove dominava la Dc. Il cui retroterra associativo e organizzativo, tuttavia, preesisteva; in quanto faceva riferimento alla Chiesa e al mondo cattolico.
Le feste dell'Unità, di questo sistema di appartenenza, costituivano il riassunto fedele. Il luogo in cui la vita quotidiana e privata si incontra con quella pubblica. In cui lo spirito volontario dei militanti si traduce in "servizio" (negli stand - gastronomici e non). In cui la passione si mischia all'evasione; e l'impegno al piacere. Dove si discutono i destini del mondo a tavola, di fronte a una piadina e a un quarto di vino. Dove la politica fa "comunità". Tutto al riparo delle bandiere rosse.
Per questo sono sopravvissute. Al Pci, al Pds e ai Ds. Per questo "resistono" al sopravvento del PD. Perché echeggiano una memoria profonda e radicata. Gramsci, Berlinguer, la casa del popolo, la vita di fabbrica, l'impegno in quartiere. E poi D'Alema, Fassino, lo stesso Prodi. Tutti insieme. Senza soluzione di continuità. Sono sopravvissute, le feste dell'Unità, non solo al Pci e ai soggetti politici venuti dopo, ma anche al modello di partito in cui sono sorte. Di cui costituivano un incrocio. Il partito di massa. Non c'è più. Non può ritornare. In Italia, si è imposto il partito mediatico personalizzato, inventato e interpretato da Berlusconi. E imitato da tutti, anche a sinistra, con esiti diversi. La televisione ha rimpiazzato il territorio. La comunicazione ha sovrastato la partecipazione. Le passioni politiche hanno perduto intensità, ma anche significato. Nella biografia della gente, la politica conta meno di un tempo. Comunque, non è più percepita come un elemento "normale", che attraversa la vita quotidiana. Ma come una frattura. Oggi, i settori sociali più "politicizzati", non a caso, sono anche i più estremisti. Oppure i più antipolitici. Quelli che: "la politica fa schifo e i politici anche". Costruire un nuovo partito oppure un nuovo modo di fare politica significa, necessariamente, andare oltre il partito di massa. Ma anche oltre ciò che lo ha sostituito. Oltre il "partito come Chiesa", ma anche il "partito personale", celebrato attraverso il rito dei media. Oltre la forbice tra "partito comunità" e "partito senza società".
Di fronte a questo bivio, il PD procede ancora incerto. Viene da partiti che hanno memoria lunga e radici profonde. Ma non ha riferimenti internazionali e storici precisi e definiti. Non è socialista, ma neppure americano (come suggerirebbe il nome prescelto). Su alcune questioni sociali ed etiche importanti, è diviso. E' maggioritario, per strategia. Ma al suo interno resistono vocazioni partigiane e proporzionali. Come rivela la sua incertezza fra sistema elettorale francese e tedesco. Così, la polemica sull'etichetta delle feste di partito è meno futile di quanto sembri. Perché costringe a interrogarsi su cosa sarà, su cosa voglia diventare, il PD, rispetto a ciò che c'era prima. Se il suo cammino debba procedere ammainando le bandiere del passato, le identità e i sistemi organizzativi da cui origina. Se debba avere una bandiera, un'identità, un'organizzazione specifiche e originali. Che assorbano e sostituiscano quelle precedenti. Se, come il PCI e la DC di ieri, debba costruire mille "case del popolo" locali. Promuovere mille feste popolari di paese. Sventolando le proprie bandiere, esibendo il proprio nome.
Da parte nostra, immaginiamo l'identità del PD come un "perimetro". Un "confine mobile" e non "un immobile" (visti i tempi, i rischi di svalutazione sarebbero, d'altronde, molto forti). Un'area, che distingue e delimita tradizioni ed esperienze diverse. Alla ricerca di un senso e di un destino comune. Per cui non ci preoccupa se sventolano le bandiere rosse, accanto e insieme alla bandiera del PD (che peraltro ignoriamo; ci viene in mente solo quella dell'Ulivo).
Tanto meno ci preoccupa che resistano, ancora a lungo, le FdU. Auspichiamo, invece, che altre feste, intitolate al PD e all'Ulivo, si diffondano, accanto ad esse. Ma senza sostituirle. Senza trasformare le mille FdU in altrettante FdPD.
Perché le FdU sono irripetibili, slegate dal loro retroterra. E il PD, peraltro, non le deve ripetere. Non deve cercare di identificarsi con la società o di confondersi nella vita quotidiana. Tanto meno di "colonizzarle". Ma di dar loro rappresentanza.
Perché il futuro partito - se vuole avere un futuro - non deve riprodurre il passato. Ma neppure negarlo, riscriverlo o, peggio, occultarlo. Deve rispettarlo. Guardare avanti. E tirare diritto.
Perché, infine, chi vuole costruire il PD ha ancora molto da lavorare. Il tempo della festa verrà più avanti.
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