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LE MAPPE DI ILVO DIAMANTI

La geografia degli orientamenti culturali, sociali e politici degli italiani, tracciata dagli articoli di Ilvo Diamanti per La Repubblica.
IL CENTROSINISTRA E LA BASE SMARRITA
[La Repubblica, 25 febbraio 2007]

Nove mesi. Neppure il tempo di suggerire l'idea del governo galleggiante. E' affondato prima. Lasciando basiti gli elettori di centrosinistra. I quali pensavano che i loro parlamentari e i loro leader avessero appreso la lezione del 1998. Quando il primo governo Prodi venne sfiduciato in Parlamento, per un solo voto, a causa dell'uscita dalla maggioranza di Rifondazione Comunista e di qualche defezione dell'ultimo secondo. Si sbagliavano. Nove anni dopo, la scena si è ripetuta, quasi uguale. Solo che stavolta il governo Prodi potrebbe riprendere il cammino. Per qualche tempo ancora, almeno. D'altronde, come nove anni fa, il centrosinistra ha fatto e soprattutto disfatto. Tutto da solo. Cannoneggiato, nell'occasione, da due senatori pacifisti, indisponibili ad accettare la politica estera del governo. Ma si è trattato di un disastro ampiamente annunciato. Altre volte altri parlamentari di altri partiti di questa "maggioranza ipotetica" (come l'ha definita Massimo Giannini) avevano "votato contro". Di Pietro, ad esempio, in occasione dell'indulto. Mentre Mastella aveva annunciato, da tempo, il suo voto contrario alla legge sulle coppie di fatto. Gli elettori di centrosinistra non hanno capito - né tanto meno accettato - questa crisi. E temono: il ritorno del Cavaliere. Alla guida del centrodestra: largamente in vantaggio, secondo tutti i sondaggi. (D'altronde, non c'è bisogno di sondaggi per respirare la sfiducia che alita sull'Unione). Lo temono anche i loro leader. Perché si immaginano sconfitti. E accantonati, a tempo indeterminato. (Come potrebbero fidarsi ancora, gli italiani, di una classe politica e di governo incapace non solo di governare, ma anche di galleggiare?). Perché, soprattutto, la prospettiva del voto ha svelato, impietosamente, lo stato precario dell'Unione. Come potrebbe andare al voto, fra qualche mese, il centrosinistra? Con quali partiti, leader, alleanze, bandiere? I partiti: sembrano passeggeri in transito verso una destinazione ancora non definita. I Ds e la Margherita: in viaggio oltre se stessi. In attesa di sciogliersi, in un congresso imminente. Per confluire in un nuovo soggetto (contenitore?) politico. Dopo essere stati post-comunisti e post-democristiani: oggi sono semplicemente post. Ma mentre transitano appaiono attraversati da incertezze e resistenze. Nei Ds, tanti non intendono rinunciare a dirsi Socialisti per diventare Democratici. Nella Margherita, tanti rivendicano l'identità Popolare. E tanti diffidano del Grande Partito dei Riformisti. Attratti dal richiamo del centro. Dal mito della Dc. Dal ritorno dell'identità cattolica. Mentre a Sinistra, Rifondazione (insieme agli altri Comunisti) oggi più che mai teme di perdersi. Sospesa: fra antagonismo e protagonismo. Fra opposizione e governo. L'Unione: un cantiere aperto. Partiti dall'identità imperfetta, logora. In corso di destrutturazione. Cosa farebbero se si votasse domani? Il partito Democratico ancora non c'è. Né si sa come e quando sarà. Come andrebbe al voto, questo centrosinistra incompiuto, in corso d'opera, sospeso fra partiti passati e partiti che verranno? Questa crisi improvvisa del centrosinistra: disorienta perché ne denuncia, oggi più che mai, il deficit di leadership. I partiti: non hanno "capi". Forse perché ne hanno molti. Troppi. I Ds: Fassino, D'Alema. E ancora: Salvi, Mussi. La Margherita: Rutelli, Franceschini, Marini, Castagnetti, Parisi. Una leadership "plurale", in entrambi i casi. Due partiti con molti leader. E, quindi, senza leader. Senza "un" leader in grado di "governare" il partito. Anche Rifondazione, dopo l'elezione di Bertinotti alla presidenza della Camera, ha "perso la testa". Perché nessun altro dispone della medesima autorità. Perché lo stesso Bertinotti si è dimostrato incapace di cementare i suoi. E ha perso prestigio. Anche l'immagine degli altri attori politici del centrosinistra è sgranata. I sindaci e i governatori. Veltroni, Chiamparino, Bassolino, Cacciari, Cofferati, Illy. In attesa del "partito che non c'è" ancora, restano attaccati alla loro comunità, alla loro città, alla loro regione. A rappresentare il territorio, che scarsa attenzione ha ricevuto, fino ad oggi, dalla loro maggioranza e dal loro governo. Il Partito Democratico. Se si votasse domani: che ne sarebbe? Cosa sarebbe? Una federazione? Un accordo di cartello valido per una Camera e per l'altra no? Chi lo guiderebbe? Prodi? Fino a ieri la sua legittimazione si è fondata sull'investitura delle primarie, sulla vittoria elettorale dell'Ulivo. E, soprattutto, sul ruolo di capo del governo. Il governo: l'unica "casa comune" per l'Unione. Ma le primarie sono distanti un secolo. L'Ulivo non c'è più. Sostituito dal Partito Democratico che non c'è ancora. E il governo è caduto. Così, Prodi torna solo. Un leader instabile, perché instabili sono le basi su cui poggia la sua autorità. E tali sono destinate a restare, anche se le Camere gli rinnoveranno la fiducia, nei prossimi giorni. Nonostante gli ultimi due punti del programma prevedano che spetta a lui solo "decidere". E al suo portavoce "parlare". Per conto degli oltre cento membri del governo. Un proposito sinceramente arduo da rispettare. Se si dovesse andare al voto, oggi: come si presenterebbe il centrosinistra? Con quali progetti, programmi? Con quali (quale) leader? Con quale coalizione? Come potrebbero convivere riformisti e radicali, dopo questa esperienza? E, d'altronde, come immaginare di vincere o di perdere dignitosamente, con l'attuale legge elettorale, rinunciando all'apporto di una sola lista? Il centrosinistra. Dovrebbe, di nuovo, affidarsi a Berlusconi. Alla sua capacità di unificare non solo la sua parte, ma anche gli altri, dividendo il mondo tra amici e nemici. Eppure, per l'Unione, meno di un anno fa hanno votato oltre 19 milioni di elettori. Un milione e mezzo in più del 2001. Oggi, sicuramente, sarebbero di meno. Ma restano, comunque, in tanti a credere e a investire nel centrosinistra. Tanti. Disposti a mobilitarsi e a partecipare. Su questioni generali e su emergenze locali. Come hanno dimostrato sempre, ogni volta che ne è stata data loro la possibilità. Il problema è che mai come oggi la distanza fra la società e la classe politica che li rappresenta è apparsa tanto ampia. Il fossato che separa la domanda di unione degli elettori dall'Unione. Perché è francamente difficile riuscire a riconoscersi in un collage di partiti e partitini oligarchici. In una classe dirigente frammentata e autoreferenziale. Presente nei salotti televisivi più che nella società e sul territorio. Così, oggi, spenti gli entusiasmi suscitati dalle primarie, sopite (da tempo) le attese sollevate dal governo, gli elettori di centrosinistra si stringono intorno all'Unione, spinti dalla "paura". Che torni il "tiranno". Una colla un po' debole per tenere troppo a lungo, da sola. Questo centrosinistra, impegnato a risolvere la crisi su base "parlamentare". Sperando nella buona volontà e nella buona salute dei senatori a vita. E nella reazione "unificante" prodotta dalla paura. Non ha futuro, se non affronta la frattura che lo separa dalla sua base. Qualcuno definirà questa lettura qualunquista, più che da analista. Perché opporre le virtù della società civile ai vizi della politica è popolare, ma anche populista. La classe politica, infatti, non nasce dal nulla. Rappresenta e - in una certa misura - rispecchia i cittadini che l'hanno eletta. Nel qual caso, gli elettori di centrosinistra devono avere commesso colpe assai gravi, in qualche precedente vita, per meritarsi tutto questo.
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