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LE MAPPE DI ILVO DIAMANTI

La geografia degli orientamenti culturali, sociali e politici degli italiani, tracciata dagli articoli di Ilvo Diamanti per La Repubblica.
I QUATTRO DILEMMI CHE LACERANO IL PD
[La Repubblica, 26 marzo 2012]

IL PARTITO Democratico è attraversato da un disagio profondo. Difficile da dissimulare, ma anche da sopportare a lungo. Rischia di uscirne dissociato. Insieme a questo governo di "tregua nazionale".

E al sistema politico di questa Repubblica, post-berlusconiana. Montiana. Sono quattro le questioni - meglio sarebbe dire "dilemmi" - che lacerano il Pd. Gli obiettivi, le alleanze, le primarie e la leadership. In questa sede mi limito a tematizzarle in modo schematico.

1) Anzitutto, gli obiettivi, l'orizzonte strategico. Il Pd oggi è diviso. Non solo al proprio interno, ma "intimamente". Nel senso che leader, militanti ed elettori con-dividono i medesimi orientamenti. Contrastanti. Sospesi e stressati fra laburismo e liberismo. Basti pensare, in primo luogo e soprattutto, al controcanto (contraddizione?) fra l'atteggiamento verso il governo e le sue politiche.

Gli elettori del Pd valutano le scelte del governo Monti, nell'ambito economico e del lavoro, in modo largamente negativo. Le considerano, eufemisticamente, poco eque. Sul provvedimento relativo all'art. 18 (come emerge dai dati del sondaggio di Demos) il dissenso degli elettori Pd è netto (67% contrari). Superiore a quello della popolazione (59 % circa).

Essi, tuttavia, sono al contempo, i più convinti sostenitori del governo (80%: quasi 20 punti più della media generale). Stimano Monti (84%: + 17 punti della media generale) ma anche i suoi ministri. Fornero (60%: 9 punti in più della media
generale) e Passera (65%: addirittura 15 punti sopra la media generale). Insomma, la base del Pd e animata da sentimenti "lab" ma si affida a una squadra di "lib" convinti.

Peraltro, il 44% degli elettori Pd esprime "molta fiducia" nella Cgil, circa 20 punti in più rispetto alla media della popolazione. Mentre il credito verso Cisl e Uil scende al 27% (6 punti sopra la media) e verso le associazioni degli imprenditori scivola al 19% (2 punti meno della media). Difficile che uno sguardo così strabico non provochi malessere.

2) Un problema accentuato dalla questione delle alleanze. Pur di favorire la nomina di Monti al governo e, insieme, le dimissioni di Berlusconi, il Pd ha accettato di allearsi con l'Udc e, soprattutto, con il Pdl. Una "grossa coalizione". All'italiana - cioè: non ammessa e non dichiarata. In contrasto con l'intesa di centrosinistra, coltivata negli ultimi anni insieme a Idv e Sel. E sperimentata con successo, seppure con qualche sofferenza, alle amministrative del 2010.

Tuttavia, alle prossime elezioni (che dovrebbero svolgersi nel 2013, secondo regola) non sarà facile per il Pd (e per il suo gruppo dirigente) scegliere le alleanze. Certamente non potrà riproporre la "grossa coalizione" con il Pdl e l'Udc. Oltre metà degli elettori non lo seguirebbe. Preferirebbe, piuttosto, votare per la Sinistra. Oppure astenersi.

Ma neppure un'intesa "esclusiva" con l'Udc, quindi un patto di Centro-Sinistra, garantirebbe l'unità interna al Pd. La sua base elettorale si spezzerebbe. Un terzo opterebbe, egualmente, per la Sinistra. Con il risultato che prevarrebbe il Centrodestra (Pdl-Lega).

Resta, quindi, l'alleanza con la Sinistra. Con l'Idv e Sel. La più condivisa dagli elettori. Ma non priva di rischi. Perché, inoltre, accentuerebbe il peso degli orientamenti laburisti e di sinistra. Alimentando il disagio della componente "popolare" e "moderata" nel Pd.

3) C'è poi la questione delle Primarie. Non un semplice metodo di selezione del candidato alle elezioni (a diverso livello: nazionale e locale), ma un vero "mito fondativo", secondo la definizione di Arturo Parisi. Utilizzate anche per eleggere il leader del partito. Una procedura di mobilitazione degli elettori e dei simpatizzanti, progettata al tempo dell'Ulivo, soggetto politico "inclusivo" che mirava all'aggregazione delle forze politiche di centro-sinistra, sotto lo stesso tetto. Come l'Unione nel 2006.

Ma nel Pd, "partito" maggioritario ed "esclusivo", le Primarie, dopo il 2008, si sono trasformate in un metodo per scegliere il candidato di "un altro" partito. Nell'ultimo anno, è già avvenuto a Milano, Cagliari, Genova. Da ultimo a Palermo. E prima in Puglia. Naturalmente, il problema non è tanto le Primarie, quanto il Pd. Le cui divisioni si trasferiscono nelle Primarie. Occasione per regolare i conti interni, fra leader e componenti. Il che favorisce, ovviamente, i candidati di altre forze politiche.

Tuttavia, gli elettori di centrosinistra e del Pd si sono, ormai, "abituati" alle Primarie. Principale, se non unico, canale di partecipazione alle scelte del partito. Per cui, non a caso, i due terzi degli elettori del Pd si dicono disponibili a votare alle Primarie. Peraltro, il 35% le vorrebbe solo di partito. Una componente superiore (di circa 10 punti) a quella che si osserva nella base di Sel e Idv.

Il problema è che il Pd deve decidere cosa vuol diventare da grande. Un "cartello nazionale", in grado di aggregare molte forze diverse, come l'Ulivo. Oppure un Partito che mira ad attrarre gli elettori dell'area di centrosinistra, come il Pd nel 2008. Un'alternativa che condiziona l'ambito delle Primarie. A livello di partito o di coalizione.

4) Questi dilemmi si riflettono nella questione della leadership. Divenuta fondamentale al tempo della "democrazia del pubblico" (così definita da Bernard Manin), personalizzata e maggioritaria. Oggi, non esistono partiti senza leader che li impersonino. Semmai è vero il contrario. Presidenti senza partiti e, perfino, contro i partiti. È il lascito del Berlusconismo. E della sua crisi, colmata dal ruolo assunto da Napolitano e da Monti.

A questo proposito, è interessante notare come il leader che gode dei maggiori consensi, in vista delle prossime elezioni, fra gli elettori di centrosinistra, sia l'attuale segretario del Pd, Pier Luigi Bersani. Il quale prevale nettamente sugli altri possibili candidati. Degli altri partiti e dello stesso Pd. Bersani. Nonostante sia considerato un leader debole. Forse perché è, comunque, ritenuto competente. In grado di guidare il Governo meglio del partito. O forse perché proprio la sua "debolezza" lo rende adatto a interpretare i dilemmi del Pd.

Più che un soggetto coerente e strutturato: un aggregato politico, che raccoglie molte diverse storie, identità e culture. Senza riassumerle. Il che non gli ha impedito di divenire primo partito in Italia - per debolezza altrui. Ma gli ha permesso, anzi, di aggregare, con successo, altre forze politiche, in diverse occasioni recenti. Magari senza imporsi alla guida. Senza imporre la propria guida. Agli altri.

Un "partito impersonale", in mezzo a molti "partiti personali" e a due Presidenti senza partito. Può essere "impersonato", anzitutto e soprattutto, da una persona anti-carismatica. Un leader di buon senso. Un Bersani, insomma. (Detto senza ironia, né, tanto meno, con sufficienza.)

Ciò, semmai, solleva un altro dilemma. Riguarda il rinnovamento della classe dirigente. Tanto evocato quanto, fin qui, eluso e deluso. Impensabile e im-pensato dagli stessi elettori del Centrosinistra.

Il dubbio è se il Pd possa avvantaggiarsi della debolezza altrui - e propria - evitando di fare i conti con i suoi dilemmi, sin qui rinviati e irrisolti. Fino a quando gli sarà possibile? Non molto a lungo, penso.


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