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LE MAPPE DI ILVO DIAMANTI

La geografia degli orientamenti culturali, sociali e politici degli italiani, tracciata dagli articoli di Ilvo Diamanti per La Repubblica.
QUANDO I PARTITI SI RIBELLANO AI CAPI
[La Repubblica, 7 luglio 2014]

à significativo il moltiplicarsi, in questa fase, di conflitti - accesi - dentro a quel che resta dei partiti. Dentro al PD e (perfino) a Forza Italia, in particolare. Dovunque, la fonte dei contrasti è la stessa. I leader contro (oltre) i partiti. E viceversa. I partiti, d'altronde, nel corso degli ultimi vent'anni sono cambiati profondamente. Si sono "personalizzati". Fino a trasformarsi in "partiti personali" (come li ha definiti Mauro Calise), più che personalizzati. Differenti versioni del "partito del Capo" (per echeggiare un recente saggio di Fabio Bordignon, pubblicato da Maggioli). Dove il Capo non emerge dalla selezione e dalla mobilità interna al partito. Ma ne è l'origine e il fine. Fino alla fine. Tanto che, negli ultimi anni, abbiamo assistito all'ascesa e al declino - rapido - di formazioni, nuove ma anche vecchie. In seguito al destino del Capo. L'IdV, scomparsa insieme a Di Pietro. Scelta Civica, insieme a Monti. L'UdC insieme a Casini. FLI insieme a Fini. Mentre Rivoluzione Civile si è dissolta con Ingroia. E SEL è in bilico. Accanto a Vendola. Solo la Lega resiste, anche dopo Bossi, molto ridimensionata. Ma si tratta di un "derivato" dei partiti di massa.

I casi del PD e di FI, attraversati da divisioni e polemiche interne, sono, però, esemplari. Perché raffigurano due versioni simmetriche e opposte del Partito del Capo. FI è un partito aziendale, "costruito" intorno a Fininvest e, soprattutto, a Publitalia - la società di marketing e pubblicità. Impensabile distinguere il Partito dal suo Capo. Proprietario e imprenditore. Ma anche marchio originale e originario. Così, la decadenza politica del Capo, seguita alla fine dell'ultimo governo Berlusconi, nel novembre 2011, ha segnato il fallimento della "costituzione di un grande partito liberal-conservatore" (come chiosa Piero Ignazi, nel recente saggio sulla parabola del berlusconismo: "Vent'anni dopo", edito dal Mulino). Ma ha prodotto, al tempo stesso, il rapido declino elettorale, avvenuto alle elezioni politiche del 2013 e proseguito alle recenti europee. Così, sorprende la reazione di alcuni gruppi ed esponenti di Forza Italia. Indisponibili ad accettare i patti negoziati dal loro Capo con Renzi, in tema di riforme istituzionali ed elettorali. Sorprende: perché FI "dipende" da Berlusconi. Eppure, al tempo stesso, è automatico che gli eletti e i dirigenti - a livello locale e in Parlamento - si ribellino alla prospettiva di venire assimilati dentro al PdR: il Partito di Renzi. D'altronde, anche se "incorporata" nel Capo, FI, nel corso del tempo, ha assunto una propria struttura stabile e autonoma, presente e diffusa nelle istituzioni e negli organismi pubblici. Da cui dipende il presente e il futuro professionale, oltre che politico, di moltissime persone. Difficile chiedere loro di suicidarsi senza, almeno, tentare di resistere.

Anche il PD, peraltro, è "in rivolta" contro il Capo. Come titolava Repubblica sabato scorso. Ma si tratta di una storia molto diversa. Perfino opposta. Perché il PD è l'erede dei partiti di massa della Prima Repubblica, PCI e DC. Emerso dall'esperienza dei soggetti politici post-comunisti e post-democristiani. Alleati nell'Ulivo e riuniti, infine, nel Partito Democratico. Un soggetto politico, per questo, dotato di radici di ideologiche e organizzative profonde. Impiantate sul territorio e nella società. Anche per questo, estraneo a modelli leaderistici. Attraversato, semmai, per tradizione, da correnti e gruppi, a livello nazionale e locale. Così, nella Seconda Repubblica, se il Centrodestra si è identificato in un solo Capo, il Centrosinistra non ne ha avuto nessuno, di in-discutibile. Semmai, molti, in continuo conflitto reciproco. Nel PD, per questo, ogni leader che emergeva è stato, puntualmente, delegittimato e allontanato - più o meno in fretta. Così è avvenuto a Prodi, D'Alema, Amato, Rutelli, Veltroni. Per ultimo, a Bersani. Anche per questo non è riuscito a reggere la concorrenza di Berlusconi. E ha sofferto quella di Grillo. Che ha "personalizzato" una rete ampia di esperienze di segno diverso. Offrendo rappresentanza alla crescente ondata di delusione (anti)politica.

Il PD. à cambiato profondamente dopo l'avvento di Renzi. Il quale ha conquistato il più "impersonale" e "multi-personale" dei partiti. Il PD, appunto. Renzi: lo ha espugnato attraverso un (lungo) rito di massa. Durato oltre un anno. Le (doppie) primarie. Divenuto segretario, Renzi ha "conquistato", in fretta, la Presidenza del Consiglio. Ha affrontato, quindi, la campagna elettorale per le europee. Sempre di corsa. Senza quasi fermarsi. Annunciando, in rapida sequenza, le cose da fare, le riforme da realizzare. Con tale e tanta velocità da rendere difficile, agli elettori e agli stessi attori politici, verificare se e cosa davvero venisse fatto. Così, Matteo Renzi ha realizzato il post-PD. O meglio: il PdR. Il Partito di Renzi. Un modello "presidenziale". Dove lui comunica, direttamente, con i suoi elettori. Che superano i confini del PD. Alle recenti elezioni, infatti, nei comuni dove si è votato anche per il sindaco, il PD, alle europee, ha ottenuto 14 punti in più che alle comunali. E ha sfondato i confini tradizionali della zona rossa, dove era rimasto quasi imprigionato per oltre 60 anni.

Ma se perfino nel partito personale per definizione, FI, le logiche di partito sono entrate in contrasto con quelle del leader, ciò appare ineluttabile anche per il PD. Che mantiene ancora tradizioni ideologiche e legami sociali profondi. Ha gruppi dirigenti e parlamentari eletti "prima" dell'avvento di Renzi. Così il confronto fra il Partito e il Capo diventa inevitabile. Fra Renzi e il PD. Fra il PdR e il PD. Siamo alla resa dei conti. In particolare perché le questioni in gioco - legge elettorale e abolizione del Senato elettivo - mettono in discussione il principio di legittimazione e l'esistenza stessa dell'attuale ceto politico.
Eppure converrebbe a entrambe le parti una soluzione condivisa. Perché il PD senza il PdR, senza Renzi, rischia di ritrovarsi marginale. Ma Renzi (e il PdR), senza "conquistare" e modellare il PD, rischia di rallentare la propria marcia. E Renzi, a velocità "moderata", non riesco proprio a immaginarlo. Potrebbe fermarsi presto.


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